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UN ASTRONAUTA SI PUÒ SCRIVERE ANCHE CON L’APOSTROFO

Testi di Sabrina Mastropietro
Responsabile Comunicazione AIED L’Aquila

Immagini di Laura Ruggeri
Grafica AIED L’Aquila
e Sabrina Mastropietro

Credit: Benedetta Gargiulo, grafiche di Maria Caprì
Credit: Benedetta Gargiulo, grafiche di Maria Caprì

“Un astronauta si può scrivere anche con l’apostrofo”.
Recitava così una campagna di qualche anno fa che incitava alla parità di genere e al superamento degli stereotipi di genere in ambito lavorativo. E, in effetti, sono sempre di più le donne che occupano posizioni un tempo appannaggio quasi esclusivo degli uomini, sia in ambito professionale sia in ambito politico. Questi cambiamenti nella società hanno spesso posto questioni che si riflettono anche nel linguaggio che è, in definitiva, un mezzo che utilizziamo per rappresentare la realtà in cui viviamo e che, al contempo, influenza la realtà stessa.

Le posizioni personali, delle organizzazioni e delle istituzioni sui termini che indicano le donne e, in particolare, le professioniste e le politiche, sono svariate e vanno dalla normale accettazione ed utilizzo di termini declinati al femminile, entrati nel linguaggio comune solo di recente, al totale rifiuto di queste parole. E nel mezzo troviamo persone che, pur aperte in qualche misura all’innovazione, conservano interrogativi e perplessità su ciò che è accettabile linguisticamente e ciò che è gradevole all’ascolto.

Così, di riflesso, anche i giornali ci hanno offerto spesso notizie riguardo al “sindaco che ha partorito”, al “ministro che si è sottoposto a inseminazione artificiale” e gossip sul “marito del chirurgo dei vip” (in tempi antecedenti le conquiste delle unioni omosessuali).

Il cambiamento in quest’ambito sembra lento e difficoltoso, ma l’Italiano è una lingua viva, in continua evoluzione; i termini che utilizziamo per esprimerci cambiano insieme alla società, con l’arrivo di nuove tecnologie, in seguito alla nascita di nuove professioni, s’inventano nomi per descrivere cose, mestieri e cariche che prima non esistevano. Allo stesso modo, cambiano gli usi consentiti di certi termini in base alla consapevolezza che la società matura. Insomma, nella lingua tutto cambia e nessuno e nessuna linguista penserebbero mai di congelare l’Italiano.

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La questione linguistica.
Innanzitutto, chiariamo che le parole spesso dibattute come architetta, avvocata, sindaca, ministra sono femminili regolari. Il dubbio, se lo avete, potete risolverlo dando un’occhiata a Treccani o Accademia della Crusca. Dunque, la questione linguistica non si pone: il femminile delle parole italiane si può tranquillamente costruire seguendo semplici regole, eppure certe parole declinate al femminile non sono ancora completamente affermate e capita spesso di vederle rifiutate da uomini e donne con le motivazioni più disparate. O, addirittura, chi naviga i Social avrà spesso notato l’uso del femminile in senso dispregiativo, enfatizzato dall’uso della lettera finale maiuscola (sindacA, assessorA).

Infermiera sì, chirurga no. 
Il rispetto e la difesa dell’Italiano sono alla base delle ragioni indicate da molti detrattori e molte detrattrici. “Non si può sentire”, “è proprio brutto”, dicono, senza però pensare che ogni termine nuovo le prime volte che lo usiamo può suonare strano o anche sgradevole: più verrà utilizzato, soprattutto dai media, più diventerà comune e non susciterà particolari reazioni. Così come diciamo infermiera, possiamo utilizzare medica, chirurga e direttrice sanitaria. Ma le difficoltà ad accogliere questi termini sembrano essere maggiori all’aumentare del prestigio (e conseguentemente del potere) che l’opinione pubblica attribuisce a certi incarichi. La questione assume, quindi, connotazioni di tipo culturale ed è sostenuta da resistenze più o meno consapevoli rispetto all’evoluzione del ruolo della donna nella società.

Segretaria sì, ma anche no.
Alcuni termini poi cambiano significato se usati al femminile o al maschile e, in base a questo, modificano in chi ascolta la percezione dell’importanza dell’incarico. Siamo persone ben abituate al termine segretaria. Però, se diciamo “la Segretaria del partito” molte persone penseranno all’impiegata della segreteria e non a chi ha un ruolo di leadership. Così anche per Segretario di Stato: abbiamo visto giornali titolare “Il Segretario May arriva in Italia” quando, in realtà, Theresa May è una donna. Per la stessa parola, quindi, anche se regolarmente in uso al femminile, si sceglie la declinazione al maschile per indicare il ruolo di potere: declinato al femminile il termine rimanda a mansioni di minore prestigio e potere.

Non solo, alcune parole ed espressioni comuni, poi, al femminile diventano vere e proprie offese per le donne: memorabile è il monologo di Paola Cortellesi sul testo di Stefano Bartezzaghi che fa riflettere su quante espressioni diventino, solo al femminile, luoghi comuni che denigrano le donne.

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L’abitudine fa belle le parole.  
Sentiamo spesso dire che il femminile in molti casi sia brutto da sentire, che rovinerebbe la sonorità della nostra lingua, che dobbiamo difendere l’Italiano, ma poi, nella quotidianità, accogliamo e utilizziamo senza troppi problemi neologismi legati, ad esempio, all’uso delle tecnologie. Cliccare, loggare, taggare, postare: chi non ricorda lo strano suono che queste parole avevano per ciascuno e ciascuna di noi le prime volte che le abbiamo sentite? Eppure oggi le usiamo correntemente, senza neanche farci caso. L’abitudine all’uso di un termine determina la sua accettazione nel linguaggio quotidiano ed avere nuove parole nel linguaggio vuol dire che quelle cose, finalmente, per noi esistono. Esiste solo ciò che nominiamo, attraverso la parola formiamo i significati che danno senso ai vissuti. Se possiamo nominare una cosa possiamo anche pensarla. E non bisogna cedere alla tentazione di liquidare il problema come se fosse questione di lana caprina, non possiamo cedere al benaltrismo: il linguaggio ha un valore politico e un potere in grado di costruire e di distruggere.

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Le nostre radici nel linguaggio di genere.
Cara Senatrice, la chiamo così perché mia madre era una maestra e nessuno l’ha mai chiamata maestro…” iniziava così la lettera che un parroco scrisse alla senatrice Franca Falcucci. Erano gli anni Ottanta e la parola senatrice era un tabù: “Signora Senatore” era l’espressione che alla fine di vari ragionamenti era sembrata più utilizzabile, ma senatrice no, era considerato un termine cacofonico. L’incipit di questa lettera ispirò alcune donne tra le quali Alma Sabatini, Marcella Mariani, Edda Billi e Alda Santangelo che trent’anni fa hanno scritto il volume “Il sessismo nella lingua italiana”, edito dalla Presidenza del Consiglio, opera che segna lo spartiacque nella storia del linguaggio di genere. Sabatini è stata una figura determinante per questa causa: con le sue raccomandazioni per un uso non sessista della lingua italiana, ha portato alla ribalta in Italia, per la prima volta in modo sistematico e critico, la questione della rappresentazione della donna attraverso il linguaggio e lo ha fatto precorrendo i tempi: basta pensare che tuttora, in molti contesti, si fa fatica a mettere in pratica quelle raccomandazioni pensate più di trent’anni fa.

È con orgoglio, però, che ci piace ricordare la cornice nella quale questo scritto ha potuto vedere la luce. La persona alla quale dobbiamo il nostro grazie per aver creato le condizioni affinché fosse possibile realizzare la ricerca e il volume è Elena Marinucci, cofondatrice del Consultorio AIED L’Aquila, che a metà degli anni Ottanta volle con forza che fosse costituita la Commissione nazionale per la realizzazione della parità tra uomo e donna. Fu proprio nell’ambito di quella Commissione che Sabatini fece la sua ricerca, è lì che ha trovato il terreno fertile per realizzare il volume che ancora oggi ci ispira nel dibattito sul linguaggio di genere, lì sono state create le condizioni perché la presa di consapevolezza su questo tema avesse inizio.

In cammino.
La strada che abbiamo davanti per un uso non sessista della lingua è ancora tortuosa, presenta interrogativi, dubbi e incertezze e sembra essere tutta in salita: molti termini saranno accettati, altri li cambieremo per una naturale evoluzione. Sceglieremo forse modalità nuove di comunicare che siano inclusive anche di chi rifiuta una dualità maschio/femmina nel linguaggio, perché non inclusiva delle sfumature presenti nella realtà. E poi è una strada che non sappiamo dove ci porterà, anzi, sappiamo che nelle questioni linguistiche non c’è mai un punto d’arrivo perché mentre parliamo il mondo evolve: nel tempo che ho impiegato a scrivere questo articolo saranno state perfezionate nuove tecnologie, brevettate nuove invenzioni, qualcuno/a avrà creato un nuovo business e con queste novità saranno nuove anche le sfide linguistiche che ci aspettano. Insomma, la strada è infinita e non prevede soste, l’unica certezza che abbiamo è che, prima o poi, dovremo tutte e tutti metterci in cammino.

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Bibliografia

Il sessismo nella lingua Italiana
Alma Sabatini, Marcella Mariani, Edda Billi e Alda Santangelo – 1987

Linee guida per l’uso del genere nel linguaggio amministrativo
Cecilia Robustelli – 2012

Il sessismo nella lingua italiana trent’anni dopo Alma Sabatini
AA.VV Grammatiche della società – 2020

C’è differenza
Graziella Priulla – Franco Angeli 2013

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