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IL MONDO DELL’ADOZIONE

IVANA_DE_BONOIntervista del dott. Domenico Capogrossi
Psicologo Psicoterapeuta Individuale e di Gruppo,
Psicoanalista Interpersonale e Gruppoanalista
Servizio di Psicologia AIED
alla dott.ssa Ivana De Bono
Psicoanalista
Presidente della Società di Psicoanalisi Interpersonale e GruppoAnalisi
docente di Psicologia dello Sviluppo e di Psicologia Dinamica presso l’Istituto di Specializzazione in Psicoterapia Interpersonale e GruppoAnalisi S.P.I.G.A. di Roma
Già Giudice Onorario Sez. Minorenni Corte d’Appello di Firenze,
Direttrice della rivista “Trasformazioni”,
Formatrice in materia di adozione nazionale e internazionale, lavora a Firenze e Roma.
Mail: ivdebono@tin.it

Ho lavorato 12 anni in una Residenza a contatto con bambini, bambine, ragazze e ragazzi allontanati da un ambiente familiare altamente disfunzionale e ogni giorno mi sono sempre posto diverse domande: cosa si potrebbe o dovrebbe fare in casi del genere? Quale sarebbe la cosa più giusta per riparare in loro una ferita tanto grande? Si dà il tempo all’ambiente familiare disfunzionale di migliorare? Sì, ma quanto? E soprattutto, chi restituirà questo tempo “rubato” ai bambini, alle bambine, alle ragazze e ai ragazzi innocenti? E se l’ambiente da cui provengono non dovesse migliorare, o addirittura dovesse peggiorare? In questo caso la “soluzione” potrebbe essere l’adozione?
All’inizio queste domande sono state più assillanti nella mia mente, poi, nel tempo, ho imparato “semplicemente a stare insieme a loro”.
Molti sono tornati nella vecchia casa, chi dopo un po’ di tempo, chi, purtroppo, al compimento del diciottesimo anno di età; per altri, invece, si è intrapresa la strada dell’adozione.
Ecco, adozione, una parola di otto lettere che al suo interno però racchiude un mondo tanto vasto.
Dr.ssa De Bono, vista la sua immensa esperienza nel campo dell’adozione vorrei porle alcune domande in merito. L’intento è quello di riuscire ad addentrarci in un tema tanto profondo, un tema che invece troppo spesso, purtroppo, viene trattato con superficialità.

D.C. Partiamo dall’inizio, so che non è semplice, ma le pongo la domanda così come la sento: cos’è l’adozione?

I.D.B. Proprio a proposito dell’adozione sa cosa disse gioiosamente un bambino alla sua mamma adottiva, traendo spunto dalla lettura di Pinocchio? Che i bambini adottati “non sono più di legno, ma sono bambini veri!”.  Ecco, l’adozione è questo. È certo fondamentale dare una famiglia, una casa e tanto amore ad un bambino che ne è privo, ma non è sufficiente. Adozione è il dare corpo, forma e voce ad un bambino che è stato profondamente ferito, è il restituirgli la sua pelle su cui però sono rimaste impresse le sofferenze subìte, rimaste troppo a lungo inascoltate, che chiedono di essere accolte, risanate e trasformate. L’adozione ha dunque un profondo valore riparativo e trasformativo e non è mai un percorso facile e indolore. È sempre e comunque un lungo lavoro di tessitura e di risanamento che si dipana nel tempo, che ha origini lontane, sia nella storia dei genitori, sia in quella di chi viene accolto nella sua nuova famiglia.

D.C. Come si sente la coppia genitoriale che si appresta ad adottare?

I.D.B. Chi si affaccia al mondo dell’adozione è frequentemente una coppia che non ha potuto procreare, che spesso si è prima sottoposta a complesse ed estenuanti metodiche di fecondazione assistita, che ha dovuto affrontare il dolore della propria incapacità procreativa, su cui però prevale in modo pressante il desiderio di diventare genitore e di donare amore a chi non ce l’ha. Il passaggio da una infertilità biologica ad una fertilità mentale ed affettiva non è semplice: il cosiddetto lutto procreativo richiede una sua elaborazione e spesso lascia tracce di incompiutezza che facilmente possono riemergere nel tempo. Non solo; altre problematiche, personali o della coppia, possono nel tempo ostacolare il processo di crescita della famiglia adottiva, soprattutto se non se ne ha consapevolezza e se non si sono sapute attivare innanzitutto verso se stessi quelle capacità che saranno indispensabili nella relazione con il proprio bambino. È per tutto questo che è fondamentale fin dall’inizio la preparazione e la formazione delle coppie che si avventurano lungo la strada dell’adozione, meravigliosa ma difficile. Non sto qui ad addentrarmi sulle varie fasi per l’ottenimento dell’idoneità, dai primi incontri presso i Centri Adozione ai colloqui con gli operatori dei Servizi Territoriali, fino ai rapporti con l’Ente Autorizzato (nel caso di adozione internazionale) che seguirà l’iter con il paese di nascita del bambino. Dico solo che lungo questo percorso, svolto da operatori esperti, è importante che vengano stimolate, messe a fuoco e sviluppate le competenze emotive e relazionali delle coppie perché possano affrontare le problematiche dei bambini e mettere in moto effettivi processi di riparazione e trasformazione.

D.C. Quindi le coppie devono avere o acquisire particolari capacità. Può dirci di più su queste competenze?

I.D.B. Diciamo che sono capacità che dovrebbero ovviamente avere tutti i genitori, ma sappiamo che nel caso di un bambino che sicuramente ha un passato traumatico, una frattura interna che chiede di essere ricucita, diventano competenze che entrano costantemente in gioco, fin da subito e negli anni successivi. Per risponderle sinteticamente, è importante che le coppie siano predisposte o aiutate a mutare aspettative e richieste, soprattutto se narcisistiche e compensatorie, verso il bambino; che si rivelino capaci di dislocarsi sul punto di vista dell’altro; che abbiano plasticità e attitudine al cambiamento; che siano pronte a rinunciare a rigide norme educative, dettate da un proprio bisogno di sicurezza e di riconoscimento della propria figura genitoriale, per aprirsi alla vicinanza emotiva e all’attribuzione di senso rispetto ai comportamenti apparentemente inadeguati del bambino; infine, che sappiano coltivare aspettative positive anche in assenza di risultati immediati per poter essere là dove il bambino ha bisogno e nel modo in cui ha bisogno.

D.C. In un suo articolo ho letto queste righe riguardo il/la bambino/a che viene adottato/a che mi hanno molto colpito e profondamente emozionato:

I.D.B. “Le parti sofferenti del bambino si trovano lontano, nascoste nella profondità dell’inconscio, in un luogo psichico apparentemente sicuro, ma dove impera la confusione e la frammentazione, dove non ci sono né parole, né rappresentazioni, dove non c’è confine né tenerezza, dove l’essere avvolti si è trasformato nell’essere stati travolti.
È in questo luogo, in questo “altrove”, che noi adulti “sufficientemente buoni” siamo chiamati a esserci, per trovarci esattamente là dove il bambino ha vissuto una sofferenza troppo grande rispetto alla quale è rimasto solo troppo a lungo, fino al punto di doversi nascondere per poi smarrirsi.
È in quel luogo che l’adulto può esercitare la sua funzione di contenimento e di vicinanza empatica, per rivivere con lui un’esperienza relazionale in modo finalmente positivo, capace di restituire continuità alla discontinuità del suo esistere” (De Bono, 2009, p.107)*.

D.C. Riuscirebbe, con il dovuto rispetto della privacy ovviamente, a farci un esempio reale, permettendoci, così, di contestualizzare quanto appena letto?   

I.D.B. Più che parlare di una specifica storia clinica, potrei accennare ai segnali che spesso può manifestare un bambino fin dal momento del suo arrivo, o anche in seguito; segnali che vanno colti e che possono diventare canali di accesso per giungere in quell’altrove dove il bambino ha frammentato parti di sé a causa di un dolore intollerabile e indicibile rispetto al quale è rimasto solo troppo a lungo.  È un bambino che non ha avuto una figura accudente che lo ha accompagnato nei suoi primi passi di esplorazione del mondo, sia interno che esterno; che non è stato aiutato a dare un nome ai suoi stati emotivi, rimasti sconosciuti dentro di lui, incontrollabili e minacciosi. È un bambino a cui il nuovo fa paura, che ha bisogno di riacquistare quel senso di fiduciosa aspettativa che gli è stato precocemente leso prima di poter veramente esprimere se stesso e consegnare con fiducia al nuovo adulto di riferimento le sue paure. Allora qui mi viene in mente la pseudoautonomia, il fare da soli per negare a se stessi l’assenza dell’Altro e al tempo stesso il proprio bisogno di dipendere da un adulto accudente; oppure l’iperadattamento di quei bambini così ubbidienti e ancora una volta ben adeguati alle richieste degli adulti, che in questo modo vogliono semplicemente scacciare la loro paura di essere di nuovo rifiutati. Penso anche a quei bambini che sono incapaci di piangere per una contusione, che non sanno che un bacio può “guarire” una ferita o che si dondolano da soli perché non hanno ricevuto quell’abbraccio contenitivo, sia fisico che affettivo e mentale, che permette di sperimentare il senso di esistere per l’Altro e nel mondo. È qui che entrano in gioco tutte quelle competenze genitoriali che le dicevo. Quanto è importante esserci nella relazione con questi bambini.

D.C. Perché secondo lei è così complesso il mondo dell’adozione, tanto da non concludersi sempre con un lieto fine?

I.D.B. La complessità di ogni storia adottiva è data dall’intreccio di più fattori. Credo però che l’elemento principale su cui porre l’attenzione sia sempre la preparazione dei genitori che possono essere più o meno pronti ad accogliere il bagaglio, spesso pesante, con cui arriva un bambino. Su questo ritengo fondamentale che la coppia sia seguita fin dai primi passi dell’adozione per evitare deviazioni in strade buie e pericolose. Per esempio, si ha la diffusa convinzione che adottare un bambino molto piccolo, magari neonato, annulli o riduca al minimo la storia antecedente. Purtroppo questa è una trappola che può creare seri problemi successivi. Anche la tendenza a voler equiparare in tempi brevi l’adozione alla filiazione naturale o, ad esempio, il non affrontare con il bambino fin da subito, qualunque sia la sua età, il tema della sua origine adottiva sono indicatori della difficoltà del genitore di pensare la verità, di poterla tenere emotivamente dentro di sé, con il risultato di lasciare il bambino ancora una volta solo, come allora, di nuovo preda di un timore senza nome che può assorbirlo sempre di più, condizionando la sua crescita in senso distruttivo.
Vorrei ricordare che le prime fasi di vita lasciano sicuramente una memoria inscritta nel corpo, ma ciò non va tradotto in termini di fissità per il costituirsi dell’identità adulta. Oggi sappiamo – anche grazie alle più recenti ricerche nel campo delle neuroscienze – che il cervello ha una sua capacità plastica di modificare struttura e funzioni al mutare delle esperienze interpersonali. Ciò significa che anche il bambino deprivato può beneficiare di un ambiente facilitante in grado di offrirgli nuove vie di sviluppo. Occorre però tempo perché si possano riconnettere quei frammenti di sofferenza rimasti in un altrove in cui il bambino ha lasciato parti di sé che chiedono di essere accolte e risanate. È appunto un lungo lavoro di tessitura fra il qui e l’allora, fra il presente e il passato, fra l’essergli accanto ora ed esserci in quell’Altrove dove il bambino, rimasto solo troppo a lungo di fronte a tanto dolore, ha preferito nascondersi e anestetizzarsi, anche a rischio di smarrirsi nel nulla della non esistenza.
Sono ormai trent’anni che mi occupo di clinica e di formazione in questo ambito. Ho seguito molte coppie adottive, sia singolarmente che nei gruppi di supporto alla genitorialità adottiva, e posso veramente dirle che nella maggioranza dei casi i genitori adottivi non hanno qualcosa in meno rispetto ai genitori biologici, ma caso mai acquisiscono progressivamente qualcosa in più e costituiscono una grossa risorsa che deve essere alimentata e curata fin dall’inizio dell’iter e supportata anche negli anni successivi all’adozione.
Sostenere nel tempo queste coppie in un continuo e costante lavoro di condivisione, riflessione e confronto su dubbi, paure e difficoltà rappresenta dunque il miglior lavoro preventivo per il cammino di crescita della famiglia adottiva, soprattutto in vista della fase adolescenziale del figlio, quando potranno germogliare nuove rivisitazioni, elaborazioni e opportunità trasformative.

* De Bono I. (2009), “Il gruppo come luogo di formazione all’adozione”, Trasformazioni, IV, 7-8, pp.99-114.

A nome del Consultorio Aied un ringraziamento particolare alla Dr.ssa Ivana De Bono per l’intervista e un grazie speciale da parte mia per avermi insegnato “semplicemente a stare insieme a loro”.

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